Iniziò Saul Bellow, il grande scrittore ebreo canadese. Nel 1994 sul New York Times, Bellow fece a pezzi il terzomondismo letterario oggi imperante, secondo cui i Papua non hanno avuto un Proust e gli Zulù un Tolstoj. “La Casa Bianca dovrebbe allora lanciare una ‘fatwa’ e introdurre una taglia sulla mia testa per blasfemia contro la cultura?”, scrisse Bellow. “I miei critici, molti dei quali non sono neanche in grado di indicare su una mappa dove si trovi Papua Nuova Guinea, vogliono condannarmi per vilipendio del multiculturalismo. Io, poi, sono un vecchio maschio bianco ebreo da prendere a pedate. Ideale per i loro scopi”.
Poi arrivò La macchia umana di Philip Roth (da cui fu tratto il film con Anthony Hopkins). Racconta di Coleman Silk, docente di Lettere antiche ad Athena, che per una frase fraintesa come un commento razzista è attaccato dai colleghi e rassegna, indignato, le dimissioni. Proprio lui, Silk, che per avere successo aveva nascosto la sua identità afroamericana e si era finto bianco.
Philip Roth si fece beffe del nascente politicamente corretto che, come avrebbe detto René de Ceccatty, traduttore in francese di molti nostri scrittori, da Dante a Pasolini, “fa perdere la testa alle persone”.
Ora scopriamo che la Macchia umana non è più finzione cinematografica e letteraria. Perché come ha scritto il grande romanziere spagnolo Javier Marías, “il razzismo contro i bianchi è considerato buono e lodevole. Che tempo cretino!”.
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