Essere cristiani è diventata una colpa. Sono i grandi dimenticati dalle cause alla moda
La caduta dell'Armenia alle petrocrazie musulmane forse è solo questione di tempo. Chi resisterebbe in queste condizioni? Solo questi cristiani che sanno chi sono e mettono sempre fiori sulle croci
Nel cuore del Caucaso c'è un piccolo stato cristiano che la geografia assegna all’Asia ma che è Europa, forse più Europa di certe città dell’Europa occidentale. L’unico popolo che nella storia è stato capace di piegarsi senza mai spezzarsi. Ultima propaggine della nostra civiltà, del Cristianesimo, della cultura europea, della democrazia, della libertà e dell'Occidente. Tutte cose che dovrebbero starci a cuore.
Prima che noi diventassimo cristiani, gli Armeni lo erano già. Separata dalle Chiese greca e latina dopo il Concilio di Calcedonia (451), dotata di una Chiesa autocefala (VI secolo) rappresentata dal catholicos, che deve la sua unità a San Gregorio (detto "l'Illuminatore") e al monaco Mesrop Mashtots - il primo all'origine della conversione, nel 301, del re Tiridate IV, alleato di Roma contro i Persiani prima del regno di Costantino - l’Armenia sa chi è. Gli Armeni sanno da dove vengono. E questo popolo è circondato dall'Islam. Le sue chiese, lungi dall'essere le reliquie di una storia passata come in Europa, sono un patrimonio che rappresenta il cuore di una nazione che non ha mai smesso di battere. Per questo i loro nemici le distruggono e ne fanno moschee.
Narekavank, il Monastero di Narek, risalente al X secolo, nell'attuale Turchia orientale, dove San Gregorio si era formato, abbandonato nel 1915 durante il genocidio armeno e demolito dai turchi, oggi è una moschea.
Una situazione incomprensibile per l’Occidente abituato a camminare in un mondo senza confini e punti di riferimento, vagabondo di una società liquida e disincarnata dove l’individualismo è sovrano. E poi, “un cristiano con i baffi che beve vino all'ombra di un campanile fatto saltare in aria da un drone azero non smuove il pubblico cyber-globale come un rifugiato saheliano”, ha scritto sugli armeni il romanziere Sylvain Tesson. Gli armeni sono i grandi dimenticati dalle grandi cause alla moda.
La conquista del Nagorno-Karabakh - piccola enclave cristiana-armena da ore sotto le bombe turco-azere e che gli armeni chiamano “Artsakh” - sarà la fine di un’altra comunità cristiana indigena in una regione che ne ha persi troppi negli ultimi anni. Il Nagorno-Karabakh è il cuore del popolo armeno. È qui che svilupparono l’alfabeto armeno e dove riuscirono a mantenere la sovranità, mentre il Caucaso meridionale passava di mano tra gli imperi persiano e russo.
Il Karabakh è come il Peloponneso per la Grecia: lì ci sono luoghi armeni immemorabili, nella città di Shushi pagine importanti della storia e della cultura armena sono state scritte e nel 1920 gli azeri tentarono di annientare la città massacrando 20.000 armeni. Osip Mandelstam, il famoso poeta che irrise Stalin e morì di freddo in un Gulag, la visitò per trarne pagine epocali.
Un territorio ancestrale dalle strade accidentate, ma che ha saputo conservare, al di là del diluvio della storia e dei terremoti, i suoi santuari anneriti dal tempo, le sue cappelle sulle montagne, i suoi oratori scavati nella roccia.
Quando l’Unione Sovietica scomparve dalla mappa, scoppiò una brutale guerra durata sei anni tra le nuove repubbliche di Armenia e Azerbaigian per il controllo del Nagorno Karabakh, che si concluse con la presa del territorio da parte degli armeni e l’espulsione degli azeri che avevano condotto orribili pogrom anti-armeni. A lungo rimasto un “conflitto congelato”, nel 2020 si riaccende, quando l’Azerbaigian – ora pieno di petrodollari e col blasone di Washington e Bruxelles – ha conquistato con la forza gran parte del territorio armeno. Da allora, Baku ha compiuto sforzi a tutto campo per intimidire i Karabakhi e indurli alla resa, comprese incursioni militari nell’Armenia vera e propria, il dispiegamento di jihadisti siriani, parchi che raffigurano soldati armeni sotto tortura, una campagna di conquista dei siti cristiani per farne moschee, la fame, l’assedio.
Se il sogno di riconquista di Baku si realizzasse, gran parte della colpa ricadrebbe sull’establishment della politica estera occidentale. I simbolici “ammonimenti” delle nostre diplomazie hanno fatto sorridere Baku e Ankara.
Tacciono gli intellettuali, tranne poche mosche bianche come Pascal Bruckner, che oggi si rivolge a Emmanuel Macron perché intervenga: “Dall'Armenia non transitano più merci, tranne qua e là un rivolo di aiuti umanitari da parte della Croce Rossa, incaricata di evitare una carestia troppo evidente che offuscherebbe la reputazione della petrocrazia azera. La popolazione resta dilaniata dalla fame, dalla carenza di medicinali, dall'assenza di beni di prima necessità, dalla paura, e il cappio si stringe sulla piccola enclave che il presidente Aliev vuole annettere al più presto per effettuare la pulizia etnica. Ricordiamo che lo stesso Aliev aveva pubblicamente proclamato il 10 novembre 2020 a Baku: ‘Ho detto che avremmo cacciato gli armeni dalle nostre terre come cani e lo abbiamo fatto’, dopo sei settimane di combattimenti che si erano conclusi con una capitolazione degli armeni. La metafora del cane è interessante perché questo conflitto avviene all’ombra del genocidio del 1915, mai riconosciuto da Ankara, e che provocò la morte di 1.500.000 armeni. Ciò che accadde più di un secolo fa si può ripetere oggi, i discendenti dei carnefici non hanno mai mostrato il minimo rimorso. Dal 5 al 14 settembre 1915, la marina francese, disobbedendo agli ordini, salvò 4.000 armeni assediati a Musa Dagg dalla Quarta Armata ottomana. Questo atto eroico suggellò la reputazione della Francia in Armenia e tra i cristiani orientali. Calpesteremo incautamente l'onore dei soccorritori di Musah Dagg?”.
Chi non ama un piccolo popolo scampato a un genocidio e che collettivamente trae la forza dell’identità dalla capacità di superare tutti i tentativi di assimilazione e di distruzione e di ricostruire ancora e ancora all'ombra di ciò che è stato raso al suolo?
I panturchi fanno quello che hanno sempre fatto: soggiogare, uccidere, convertire a forza, cacciare. Ma l’Europa, cosa fa? È come se fossimo diventati una piccola provincia molle piena di ansiolitici e fuori dallo spazio-tempo. Chi può fermare l’infamia in corso? La Russia, il paese protettore naturale dell'Armenia, è occupata altrove. L’America sta coi turchi. La UE sta con chi la riscalda d’inverno e Ursula von der Leyen ha potuto strombazzare che la UE è riuscita a porre fine alla dipendenza energetica dalla Russia grazie alla buona intesa con il regime di Baku.
"L'Italia non si vergogna neanche un po' a inginocchiarsi di fronte a chi vuole finire il genocidio di noi Armeni?", chiedeva Antonia Arslan parlando alla newsletter lo scorso gennaio. Evidentemente, no.
Se l’Europa avesse ancora un briciolo di coraggio e di autostima, avrebbe capito che il suo futuro è in gioco anche in Armenia, isola cristiana in un oceano islamista. E che il nostro vecchio mondo è sulla lista degli obiettivi di Erdogan, che prendendosi pezzi d’Armenia sta per realizzare la creazione di un’unità turco-islamica continua dal Bosforo all’Asia centrale.
Chi resisterebbe in queste condizioni? Se qualcuno potrà, saranno solo loro, gli armeni, che nelle croci scolpiscono sempre un fiore. I nostri sono tutti appassiti.
L'Europa si fa difensore internazionale dei diritti LGBT per convinzione e della sensibilità musulmana per paura.
Gli armeni cristiani non rientrano in alcuna di quelle categorie.
Perché l'Armenia non ha mai riconosciuto ufficialmente la Repubblica dell'Artsakh?