Non è fascista, razzista o populista aver paura di che tipo di paese lasceremo ai nostri figli
Nessuna maledizione si è abbattuta sui leader occidentali puniti alle urne. È in corso la secessione della società aperta, la fine di un'era e del modello imposto dai precettori dell’opinione pubblica
Prima il liberal Biden, poi il centrista Macron, la prossima settimana il conservatore inglese Sunak. Tutti i governi di tutti i grandi paesi occidentali stanno cadendo o cadrebbero se dovessero indire elezioni. Ma nessuna strana maledizione collettiva si è abbattuta sui leader al punto che i loro elettori sono arrivati a disprezzarli con enormi margini elettorali.
C’è una spiegazione più semplice per la rovina dei governi occidentali: tutti hanno concordato su un’agenda che la maggioranza ha finito per rifiutare. Per dirla con l’eminente Pierre Manent, grande studioso di Machiavelli e Tocqueville, “ci è stato vietato di amare la nostra storia e ci è stato ordinato di accogliere tutto ciò che ci accusa, perché la nuova religione politica decreta di dissolverci nell'umanità”.
Ma anziché mettere in discussione quell’agenda, continuano a gridare al “fascismo”, al “populismo” e al “sovranismo”, alla Scurati.
Al primo turno in Francia il partito-bolla di centro di Macron ha ottenuto solo un quinto dei voti nazionali dopo le disastrose elezioni europee del 9 giugno. Marine Le Pen si è attestata da sola al 34 per cento, la coalizione di sinistra al 28. In Francia, come recita la prima pagina di Les Echos, è “la fin d’un ère”. L’establishment ora chiama all’“unità antifascista” contro il Rassemblement National, sperando di ripetere l’operazione di Jacques Chirac contro il padre di Marine, il vecchio nostalgico. Ma era il 2002. Nel 2024 non funziona più. Invece potrebbe funzionare il sistema politico creato per escludere gli estremi, ben più di agitare lo spettro dell’apocalisse democratica o dell’accusa di razzismo, come spiega il sociologo svedese di origine curda Tino Sanandaji: “Ogni critica all’immigrazione era considerata razzista e portava alla fine di una carriera. In 30 anni i non occidentali in Svezia sono passati dal 2 al 20 per cento della popolazione. Ora tutti vogliono chiudere le frontiere”.
Ma qual è l’agenda che gli elettori occidentali hanno ripudiato? Anteporre il clima alla produzione industriale e tamponare il crollo demografico con l’immigrazione extra-europea.
Anche senza avere due lauree (anzi, l’istinto ormai è più vivo dove non c’è alta cultura), la maggioranza di europei ha capito, come scrive Douglas Murray ne La strana morte dell’Europa, che “per la maggior parte delle persone attualmente in vita l'Europa non sarà più l'Europa”.
Tutti i leader dei principali paesi occidentali hanno convenuto che avrebbero assorbito un gran numero di immigrati, dai paesi mediorientali e sub-sahariani nel caso dell’Europa, dai paesi centroamericani nel caso degli Stati Uniti. Non c’è bisogno di essere un complottista per capire che alle élite piace un nuovo crogiolo globale che dovrebbe diluire la cultura dell’Occidente.
L’immigrazione è di gran lunga il più importante motore del cambiamento politico, perché implica la riconfigurazione della vita sociale ed economica e l’erosione del fondamento nazionale degli stati occidentali.
Macron la chiama “transizione demografica”.
La Francia è oggi musulmana dall’8 al 10 per cento (per legge non possiamo saperlo con esattezza). E nelle grandi città siamo già a numeri da ribaltamento: Marsiglia (30-40 per cento musulmana), Bordeaux (25 per cento), Lione (30 per cento musulmana), Montpellier (20 per cento), Tolosa (“moschee: una pressione crescente”), Strasburgo (12 per cento musulmana), Avignone (“la città dei salafiti”), Tours (“dai campanili ai minareti”)… Ma lo si vede anche in cittadine medie come Roubaix, 100.000 abitanti al 40 per cento musulmana, o Trappes, al 70 per cento musulmana dove Luigi XIV realizzò i famosi stagni per il parco del suo castello.
E nello scenario più estremo, si stima che in meno di una generazione le percentuali dei musulmani in Europa saranno le seguenti: Francia (18 per cento), Regno Unito (17,2 per cento), Paesi Bassi (15,2 per cento), Belgio (18,2 per cento), Italia (14 per cento), Germania (19,7 per cento), Austria (19,9 per cento), Norvegia (17 per cento).
La sinistra di Jean-Luc Mélenchon, il re senza corona del Fronte Popolare anti-Lepen, è diventata quello che è grazie agli imam e alle moschee. Il suo bacino elettorale è immenso e i migranti sono il nuovo nucleo elettorale dei partiti di sinistra, il che mette la gauche in una strana alleanza con il centro capitalista per motivi culturali ed economici. Confida a Le Figaro un ex dirigente del partito di Mélenchon: “Si è rivolto agli islamisti per assicurarsi una base elettorale”.
I giornali italiani hanno descritto le elezioni francesi come il solito clivage manicheo europeismo o populismo, liberalismo o sovranismo. Bastava sfogliare un lungo studio pubblicato su Le Figaro per capire invece che la Francia vota secondo linee di faglia culturali, demografiche, sociologiche ed economiche.
Un paese di 2.200 anime, il caffè gestito da un circolo sociale, la metà degli abitanti pensionati, solo una decina di bambini che nascono ogni anno e un programma per “ringiovanire” la città con i migranti. Siamo in Bretagna, a Callac, finita al centro dell'attenzione nazionale e sulla prima pagina del New York Times. Il più grande datore di lavoro è la casa di cura. Sul progetto per i migranti la cittadina si è spaccata in due. “Ai fascisti che sventolano la bandiera di una ipotetica sostituzione”, ha detto Murielle Lepvraud del Fronte Popolare, “rispondo, sì, le vostre idee saranno presto sostituite”. “Non siamo topi da laboratorio”, le ha risposto Danielle Le Men, un'insegnante in pensione di destra.
Pensando a cittadine in Bretagna come Callac, Sean Thomas sullo Spectator di oggi scrive che “il considerevole voto per Marine Le Pen non è a favore del razzismo o della xenofobia, ma un voto per proteggere ciò che la Francia ha lasciato”.
Un po’ come il detto “non chiudo la porta di casa per odio verso chi sta fuori, ma per amore verso chi sta dentro”.
Per questo anche Michel Barnier, l'ex capo negoziatore sulla Brexit della UE e già eurocommissario per l’Industria e il mercato interno, ha detto che dovremmo “sospendere tutta l'immigrazione dall'esterno dell'UE per cinque anni” e spingere il blocco a rafforzare i confini esterni.
La destra domina in quella che lo scrittore Premio Goncourt Nicolas Mathieu chiama “la Francia dei barbecue”, “le persone che lavorano nei magazzini, infermieri, autisti, chi vive nei piccoli centri”. La Francia dei comuni rurali e delle periferie che ha favorito Le Pen. La destra ottiene i migliori risultati tra i dipendenti che svolgono i lavori più pesanti (in piedi, trasporto di carichi pesanti, movimenti ripetitivi, esposizione alle intemperie, orari notturni, prodotti chimici). Accanto alla “Francia tripla A”, che comprende le metropoli, le periferie borghesi e le aree turistiche, è questa “Francia delle ombre” che non fa sognare, i vecchi bacini industriali in crisi, le zone rurali remote, i piccoli centri in declino e privi di attrattiva turistica, le corone urbane lontane dalle metropoli e senza prestigio immobiliare. Il settimanale Le Point racconta che l’immigrazione extra-europea sta travolgendo questa parte di paese in nome della “banlieusardisation”. La banlieue che si estende. Poi c’è la terza Francia, quella delle banlieue e delle classi “creolizzate”, la Francia sempre più islamizzata che vota a sinistra.
Questo grafico del Financial Times di oggi illustra bene chi vota a destra in Francia: ceti non abbienti, lavoratori e classe media. L’altro fenomeno sorprendente è il voto dei ceti ricchi (28 per cento) per l’estrema sinistra filo islamica e comunitaria.
Lo stesso dal punto di vista geografico.
I popoli europei hanno paura di fronte all'immigrazione dai numeri giganteschi, paura che la cultura si dissolva in un blob generatore di relativismo e ghetti, paura di un'Europa orfana di frontiere esterne e di legittimità morale interna, paura della piena numerica che travolge tutto e tutti. Paura che il loro paese sia trasformato, come scrive Alain Finkielkraut, in un “aeroporto” per turisti e migranti.
La paura le élite possono liquidarla con smagato cinismo e continuare a vivere nell'autoinganno, agitando lo spettro dell’antifascismo. In quel caso, si ritroveranno presto Marine Le Pen all’Eliseo. Oppure possono svegliarsi dal letargo e riconoscere i guasti che corrodono le fondamenta e i segni dell’esaurimento di un modello che non fa più società, con la “narrativa” che evoca una maggioranza inclusiva e una minoranza di esclusi.
O meglio, La nuova minoranza dal titolo dell'ultimo libro dell’accademico olandese Maurice Crul (VU University Amsterdam). Ha esaminato sei grandi città di cinque paesi: Amsterdam, Rotterdam, Malmö, Amburgo, Vienna e Anversa. “La selezione non è casuale”. Sono le città dove i nativi europei non sono più maggioranza. “I nativi devono abituarsi: passano da maggioranza a minoranza” dice Crul al quotidiano olandese Trouw. “Nelle grandi città, i bianchi di origine olandese vivono già come minoranza accanto a gruppi di migranti tradizionali come surinamesi, antillesi, turchi e marocchini. Questo sta diventando realtà anche nelle città di medie dimensioni. I nativi devono integrarsi nella nuova città diversificata”.
I nativi devono integrarsi nella nuova città diversificata…
Prendiamo Haÿ-les-Roses, un comune di 30.000 abitanti nella periferia sud di Parigi. Il nome fu registrato per la prima volta in un documento di Carlo Magno nel 798 come Lagiacum, che significa tenuta di Lagius, un proprietario terriero gallico. Di “europei” sono rimasti solo i vecchi.
Questi sono i dati dei giovani in città che vengono da Africa e Medio Oriente da 0 a 18 anni e da 25 a 54 anni. Erano il 4 per cento nel 1968. Il 42 per cento nel 2017. In pratica a Haÿ-les-Roses un minorenne su due non è un francese nativo.
“Come possiamo evitare la secessione? Perché è quello che sta succedendo: la secessione”. A parlare così è l’ex presidente Francois Hollande. Le sue clamorose dichiarazioni sono state sepolte a dovere dalla stampa, ora che Hollande si è arruolato nel nuovo Fronte Popolare.
Era il 2018 quando l’allora ministro dell’Interno di Emmanuel Macron, Gérard Collomb, rilasciò questa intervista:
“Quello che leggo ogni mattina nelle note della polizia riflette una situazione molto pessimistica”.
Qual è la responsabilità dell'immigrazione?
“Enorme”.
Di che cosa ha paura? Partizione? Secessione?
“Sì, ci penso, è questo che mi preoccupa”.
Quanto tempo manca prima che sia troppo tardi?
“È difficile da stimare, ma direi che, entro cinque anni, la situazione potrebbe diventare irreversibile”.
La realtà è stata dunque riconosciuta da tutti i vertici politici, anche di sinistra. Il penultimo premier Édouard Philippe ha detto che è in atto “una secessione insidiosa”. L'ex ministro dell'Interno, Bernard Cazeneuve, ha affermato di temere “una conflagrazione”.
Tutti hollandiani e macroniani, non lepeniani.
Persino un maestro del giornalismo europeo di sinistra come il compianto Jean Daniel, il più autorevole editorialista dell’intellighenzia parigina, il fondatore dell’Obs, il membro della Resistenza, il consigliere dei presidenti socialisti e l’amico di Eugenio Scalfari, in Réconcilier la France era arrivato a scrivere: “C’è in questo momento in Occidente un'islamizzazione della vita quotidiana la cui espansione è preoccupante. Non perdonerò mai la sinistra, la mia famiglia, per non essersi preoccupata di ciò che stava accadendo”. Un giorno Daniel dice a Mitterrand: “Presidente, il paese sta cambiando. Il campanile della tua locandina elettorale in poco tempo lo vedrai circondato da due minareti". Daniel riceve in risposta: “Parli come Le Pen”. Daniel mise in discussione il mainstream sull’immigrazione: “Se i figli di stranieri nati per caso sul nostro suolo diventano francesi senza che la scuola li renda cittadini allora la nazione diventerà solo una giustapposizione di comunità e sarà condannata a scomparire”.
L'uomo, scriveva ancora Daniel, ha bisogno di “appoggiarsi a una Storia come a un rifugio e a una fonte”. “Ho scoperto che tutte le forme di affermazione dell'identità nazionale nascono da un disperato bisogno di continuità. Questo famoso modello francese, possiamo ravvivarlo? Non ci credo più, ahimè”.
In Occidente ora c’è una grande crisi culturale, sociale e geografica. Il lavoro è stato delocalizzato, ma la “delocalizzazione”, come la chiamavano gli intelligenti, non era solo economica. Le classi popolari e medie non hanno perso soltanto potere d’acquisto e posti di lavoro, hanno anche visto crollare lo stile di vita maggioritario che era il perno culturale dei propri paesi.
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