La morte di una nonna scomparsa da tempo
La solitudine di una malata di demenza, la compassione, la fine e la gratitudine per chi l'ha accudita, gli inadeguati che restano. Si impara sempre tanto da chi lascia questa vita
Mia nonna, che avrebbe compiuto 98 anni fra qualche mese e che aveva visto la storia passarle davanti compresi Hitler e Mussolini sfilare a Firenze, era scomparsa dalle nostre vite da oltre cinque anni.
Ci era stata portata via nella sua razionalità dal male oscuro della demenza, quella che fa piombare in un mondo senza conflitti e dove si è alla mercé del prossimo. Un figlio unico, anche lui in là con l’età, che non poteva più occuparsene e che, con il cuore in mano, aveva deciso di affidarla alle cure di un piccolo istituto di suore indiane. Avevo imparato ad amarle e ad accompagnarle alla stazione quando non avevano nessuno. Cercavo spesso di immaginarle in India, cosa si erano lasciate dietro e cosa pensavano di noi occidentali quando tornavano a casa.
Liliana se ne stava andando da settimane quando, una sera, mi chiamano per avvertirmi che eravamo vicini. Che fare? Aspettare la mattina o precipitarsi? Decido, contro il parere degli altri, che non saremmo stati fortunati, che non avevamo cinque ore, che non si può rimandare a domani quello che si può fare oggi, che ci saremmo pentiti per sempre se non fossimo andati, che quella sarebbe stata l’immagine che ci saremmo portati dietro di lei se si fosse spenta quella notte.
Uno dei miei figli mi guarda chiedendo cosa succede. Gli dico di dire una preghiera, che è la vita, che da lì dobbiamo passare tutti. Di corsa poi alla casa di cura, è piena notte. Nel piccolo paese gli addobbi natalizi illuminano le strade umide e ciottolate. Si tratta di uno di quei paesi antichi e vecchissimi, di storia e di demografia, che un giorno scompariranno. Provo sempre un po’ di malinconia a vederlo. Nessuno in giro. Soltanto noi con una mascherina in mano.
Ci aprono mentre nell’istituto le altre ospiti dormono. Soltanto un debole lamento qualche stanza più in là. Entriamo e Liliana è in posizione fetale, più piccola, più fragile, un lenzuolo a coprirla. La chiamiamo, non ci riconosce. Soltanto alla voce del figlio, che per anni ha confuso con il marito morto da vent’anni, si volta ma senza dargli seguito. C’è un odore acre di disinfettante. Dopo un’ora la baciamo e la salutiamo, sperando che la fine non sia così vicina. Le suore ci lasciano con uno sguardo pieno di compassione. Invidio la loro forza, la loro fede, il loro fatalismo, la loro semplicità. Penso a chi vorrebbe una società dove si manda a morte chi, come Liliana, non è più autosufficiente. Che in paesi come l’Olanda lo stanno già facendo e a quanti altri sono nella sua stessa situazione. Mi viene in mente Annientare di Michel Houellebecq, che sto leggendo proprio in quelle ore, dove una società non sa più come vivere e morire.
Torniamo a casa, senza dirci niente. Non le avevamo, quelle cinque ore.
Dopo poco mi richiamano per dirmi che Liliana se ne è andata. Mi precipito all’alba nuovamente all’istituto. Nella strada penso alle troppe poche volte che le ho fatto visita. Che siamo inadeguati. Che non c’è scusa.
Ora le hanno messo del cotone nel naso. Aspettiamo il medico per il certificato di morte. C’è fretta nella stanza, non si capisce per cosa. Ma serve un foglio per tutto oggi in Italia, anche per spostare un morto. Ci sono gli operatori della Croce Bianca. Una barella, in attesa della burocrazia da espletare. Dopo due ore la portano via. Fanno fatica a spostarla. Le suore ci abbracciano, si dicono grate di averla avuta con sé, che le faceva ridere, che chiamava tutti “pallina”, che voleva stare con gli altri, che non le piaceva la solitudine, che cantava, che le mancherà tanto.
Ora Liliana deve essere preparata per l’ultimo viaggio. Che lavoro ingrato. Pulirla, sistemarla, vestirla. Poi la mettono in una cappella con un soffitto addobbato di tessuto. C’è un registro che gli ospiti non firmano forse per non toccare la penna, penso che “il Covid ha instupidito molta gente”. Ordino pochi fiori, giusto una corona delle rose che amava. Nessun manifesto. A chi farlo sapere che se ne era andata? Non aveva più amiche, era l’ultima. Soltanto un figlio e una sorella. Le altre l’avevano tutte preceduta.
La sera, prima di chiudere, diciamo un rosario. Siamo in tre. Poi l’ultimo saluto, la sua fronte è di ghiaccio. Penso che non è giusto che resti da sola, ma non siamo inadeguati? Ripenso alla sua infanzia in un piccolo paese nel fiorentino con il bagno in comune con altri vicini.
La mattina, il funerale. Il nastro bianco per distanziare le panche non serve. Siamo pochi. Un’ora ed è finita. Smarrimento per chi doveva venire e non l’ha fatto. Si capiscono le persone più da un funerale che da una cena. Sono grato di quel momento e del sacerdote anziano, perché un funerale in chiesa è l’unica cosa che distingue come se ne va un cane da un essere umano.
Poi al cimitero. Gli operai hanno troppi lavori quel giorno (si muore tanto e si nasce molto poco in Italia) e ci chiedono di anticipare di un’ora. Aprono la tomba di mio nonno per metterli assieme. Mi fanno sentire che l’urna è piena, pesante. Si parla della pergamena con il nome. Della scelta di una foto. Poi il cambio dei fiori, rigorosamente di plastica perché oggi si ha tempo per tutto ma non per chi ci ha dato la vita. Rivedo la frase dall’Epido a Colono di Sofocle che avevo fatto incidere vent’anni fa: “Oggi tutte le cose mie scompaiono e scompare tutto quello ch’io fui. Ma tanti affanni può sciogliere una parola, io vi ho amato”. Penso che è l’unica cosa che non è invecchiata male.
Di Liliana mi restano alcuni video che le avevo girato quando era ancora in grado di canticchiare le canzoni della giovinezza. Al suono di alcune parole le si accendeva qualcosa negli occhi. Una luce, un ricordo lontano, chissà. Sono grato a chi le è stato vicino, le suore di San Francesco di Sales. Penso che il suo letto sarà già stato occupato da un’altra Liliana.
Nella morte, ci si riconcilia con la vita. Con i pochi gesti e le poche parole che le danno davvero un senso.
Purtroppo è cosi...un abbraccio e una carezza a tutta la Sua famiglia.
Condoglianze Professore. Leggendo ho ripensato ai miei nonni, soprattutto all'ultimo periodo di vita della mammuccia paterna e a quello che feci dopo. Professore, io non firmo mai il quaderno, perché la mia ultima visita è un saluto privato alla persona che ci ha lasciato.