Israele, l'avamposto dell'Occidente che resiste
Ho condotto trenta italiani dal nord, sotto tiro di Hezbollah, ai luoghi santi, che per non finire come sotto l'Isis sono dei bunker. Hanno potuto vedere un paese europeo che non si è suicidato
Gerusalemme. “Il confine in Israele è ovunque”, mi dice Aaron, autista di bus, ebreo di origine uzbeka, padre di quattro figli, che parla poco ma trasmette sicurezza. I suoi genitori vennero in Israele nel 1972, un anno prima della guerra dello Yom Kippur, da un paese che molti di noi conoscono per Samarcanda e la Via della seta. Costruirono a Gerusalemme un quartiere di ebrei poveri e religiosissimi dandogli il nome di “Bukhara”, come la città sacra uzbeka, non lontano da Meah Shearim, che i turisti a caccia di cartoline da riportare a casa visitano per vedere come si vive nello shtetl. “I miei genitori ripetevano ‘il prossimo anno a Gerusalemme’ e così dall’Unione Sovietica sono venuti qui”, racconta Aaron. “Ho fatto il militare a Gaza negli anni Novanta. Un giorno fermiamo una donna. Indossava un coltello da cucina lungo mezzo metro. Oggi è il tempo dell’Islam, dell’impero turco, dell’impero cinese e dell’impero russo. L’Occidente non esiste più”.
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