Giornalismo sull'orlo di una crisi di nervi per la vittoria di Trump
Un famoso quotidiano offre lo psicologo ai giornalisti per "superare il trauma di Trump". Ma cacciano i colleghi che dissentono. Tom Wolfe li sistemò a una cena: "Verrò all'aeroporto a salutarvi"
Nelle redazioni dei giornali occidentali è scomparso il dissidente.
Xavier Gorce si è dimesso dal primo quotidiano francese, Le Monde, quando ha scandalizzato i colleghi con una vignetta critica del gender: “Annuncio la mia immediata decisione di non lavorare più a Le Monde: la libertà non si negozia”. Julie Szego, storica firma del quotidiano liberal australiano The Age, è stata licenziata per idee politicamente scorrette. Al direttore della New York Review of Books, il liberal anglo-olandese Ian Buruma, è bastato pubblicare un articolo critico delle purghe del MeToo per doversene andare. E dal New York Magazine Andrew Sullivan se ne è andato dopo che gli hanno censurato un articolo contro Black Lives Matter (Sullivan ha poi aperto una sua newsletter di successo su Substack). E non si contano i giornalisti che lasciano per troppa critica all’Islam. Basta vedere come tutti i giornali italiani hanno fatto muro attorno alla storia che l’attentatore di Southport non aveva legami col terrorismo.
Marc Fumaroli, fra i massimi critici culturali del Novecento, lo ha chiamato Lo stato culturale (Gallimard e Adelphi). Un “microclima di euforia contagiosa”, di “conformismo ostentato” e di “informazione mutilata” che “si intrecciano in modo inestricabile”.
Il giornalismo come magistratura ideologica sotto forma di pubblico servizio, in Italia incarnato da camaleonti di rango come Eugenio Scalfari, il tipico “intellettuale opportunista travestito da antifascista”.
Secondo uno studio appena condotto su un milione di persone dall’Università del Michigan, dal 2000 al 2020 il valore attribuito all’avere opinioni diverse e all’infrangere le regole è crollato e le persone sono diventate meno disposte a esprimere “opinioni impopolari”. Secondo i ricercatori, il bisogno di “inclusione” e il bisogno di “autenticità” sono in contrasto, ma il primo ha la meglio. E rende le persone desiderose di “conformarsi”.
Basta la performance di tutti i giornali italiani sulle elezioni americane. Piccolo e incompleto bestiario:
“Harris si colloca sul solco di Roosevelt, Kennedy, Clinton e Obama. Può motivare l’identità del Partito democratico e apparire capace di intercettare la parte di consenso che rimane inespresso nella mela tagliata a metà che sono gli Usa” (Walter Veltroni, La Stampa).
“Kamala Harris rivitalizza l’America: i giovani la sentono più vera e vicina. Vance flop per Trump, non gli porta consenso” (Nayyera Haq, consigliera di Obama, La Stampa).
“Ho sognato questo: se ce l’ha fatta l’underdog della Garbatella, come può non farcela la ragazzaccia di Oakland?” (Massimo Giannini, La Repubblica)
“Trump annaspa, incapace di prendere le misure e contenere il tandem Harris-Walz” (Massimo Gaggi, Corriere della Sera)
“Kamala è molto più erede degli Obama che non di Hillary, che perse contro Trump” (Maurizio Molinari, La Repubblica)
“Vincerà Kamala: la certezza di Lichman, ‘veggente’ d’America. Dal 1984 un solo errore” (Corriere della Sera).
“La sorpresa che può spiazzare Trump si chiama alta affluenza delle donne” (Bill Emmott, La Stampa).
E ora che il dissidente è stato diluito nel brodo del conformismo, che Dino Buzzati definiva “una forza più potente dell’atomica”, nei giornali è apparsa al suo posto una nuova figura: lo psicologo offerto dai giornali, nel caso succedano cose impreviste e avverse alla visione dei reporter. Come la vittoria di Donald Trump.
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